Privacy e democrazia ai tempi della pandemia
Intervista ad Antonello Soro, Presidente del Garante per la protezione dei dati personali
(Di Niccolò Serri, www.fondazioneleonardo-cdm.com – 24 marzo 2020)

Le tecnologie digitali si stanno dimostrando molto efficaci nel combattere la diffusione del coronavirus. Mentre le democrazie occidentali fanno ricorso a metodi di quarantena più o meno stringente, paesi come Taiwan e Corea del Sud utilizzano la geolocalizzazione e il tracciamento dei contatti per isolare le fonti di contagio. Si tratta di metodi indubbiamente efficienti, ma che possono risultare lesivi della libertà personale, aprendo a forme inedite di controllo sociale. Ne parliamo con Antonello Soro, Presidente del Garante per la protezione dei dati personali.

Esiste una contrapposizione tra sanità pubblica e diritto alla privacy?

La potenziale contrapposizione tra privacy (anche nella sua declinazione digitale, ovvero protezione dati) e salute pubblica è il riflesso della più generale tensione tra libertà individuali e interessi collettivi. Una tensione che solo la democrazia può rendere equilibrio, quando non addirittura sinergia. Lo Stato nasce – come insegnava già Hobbes – quale patto con cui ciascuno soggiace a limitazioni della propria libertà individuale in nome dell’interesse collettivo alla sicurezza sociale, alla libertà dalla paura. E’ proprio della democrazia, però, aver reso quel patto lo strumento con cui garantire l’equilibrio più ragionevole tra istanze collettive e diritti individuali, coniugando personalismo e solidarismo. La sfida di questi giorni è tutta qui: nel garantire che i diritti individuali siano limitati nella sola misura necessaria ad impedire il dilagare di un virus che è paritario nel contagio, ma cinicamente selettivo negli effetti. Le limitazioni di libertà cui si deve soggiacere sono, quindi, il prezzo da pagare, doverosamente, per tutelare soprattutto le fasce più vulnerabili della popolazione, ma devono essere limitazioni strettamente indispensabili, proporzionali all’efficacia attesa e soprattutto temporanee. In questi criteri risiede la differenza essenziale tra una democrazia personalista quale la nostra e un ordinamento assai meno liberale quale quello cinese: da noi non potrebbe, ad esempio, ritenersi proporzionata la sorveglianza 24 ore su 24, con un drone, dell’intera popolazione, per verificare il rispetto delle misure di prevenzione. In Cina la violazione dell’obbligo di permanenza domiciliare è sanzionata con la pena capitale. Basta probabilmente questo a indicare la differenza identitaria dell’Europa e, quindi, anche, dell’Italia, che non possono cedere al diritto della paura, ma devono dimostrare di saper garantire un governo democratico dell’emergenza.

L’utilizzo dei big data e delle tecniche di tracciamento massiccio apre delicate questioni riguardo il modo in cui i dati vengono immagazzinati e utilizzati, soprattutto in un ambito delicato come la sanità. Quali metodi possono essere messi in campo per assicurare la democraticità della sorveglianza e garantire l’allineamento della tecnologia ai valori costituzionali?

La tecnologia può e deve essere una preziosa alleata dei diritti umani, in primis di quello alla salute che peraltro, nella nostra Costituzione, presenta una componente individualistica ma anche una dimensione solidaristica: è tanto diritto fondamentale quanto interesse collettivo. Nel “servire” i diritti, la tecnologia non deve però essere unilaterale, realizzandone uno soltanto a scapito di tutti gli altri, ma deve garantirne invece uno sviluppo armonico. Così, nel contrasto del covid le soluzioni digitali possono e devono essere utilizzate, purché in maniera compatibile con gli altri diritti in gioco, tra i quali appunto la protezione dati. Che, anzi, può rappresentare in tal senso un valido ausilio per garantire l’esattezza e la qualità dei dati e, quindi, la correttezza e l’affidabilità della prognosi algoritmica. Rispetto al contact tracing, ad esempio, i Governi dovrebbero anzitutto orientarsi secondo un criterio di gradualità e dunque valutare se le misure meno invasive (come l’acquisizione di trend anonimi di mobilità) possano essere sufficienti a fini di prevenzione, ricostruendo mappe attendibili dell’andamento epidemiologico. Laddove, invece, si intendesse acquisire dati identificativi, sarebbe necessaria una previsione normativa del trattamento dotata di adeguate garanzie, all’esito di un’analisi dell’effettiva idoneità della misura a conseguire risultati utili nell’azione di contrasto, in misura proporzionale alle esigenze perseguite e sempre che, poi, alla raccolta di dati possa conseguire un’efficace risposta dell’autorità sanitaria, già oggi sottoposta a compiti gravosi. Eseguire un numero estensivo di tamponi diventa ineludibile. Raccogliere milioni di dati su potenziali contagiati, senza poi avere i mezzi per accertarne l’effettiva positività o anche solo per controllarne l’effettiva permanenza domiciliare non migliorerebbe in nulla l’azione di prevenzione epidemiologica, ma anzi ci svierebbe da soluzioni meno velleitarie.

Il digitale interroga il confine tra pubblico e privato anche da un altro punto di vista: molte delle tecnologie abilitanti sono in mano ad aziende di telefonia privata e alle big tech come Google e Facebook. Come regolamentare il ruolo delle piattaforme in una situazione emergenziale?

Il ruolo delle piattaforme nella società digitale necessita di una migliore definizione sotto vari profili. In linea generale, le si dovrebbe onerare di una responsabilità (anche “sociale”) almeno pari al potere rilevantissimo che esercitano, pure in termini di condizionamento dei comportamenti individuali, non più soltanto sul piano commerciale ma anche su quello culturale, ideologico, persino politico-elettorale, come insegna il caso Cambridge Analytica. Nel contesto emergenziale di oggi, intanto, parrebbe auspicabile che il patrimonio informativo di cui dispongono i big tech sia messo a disposizione (con opportune garanzie di anonimato degli interessati) per fini di utilità collettiva. Questo, però, nel quadro di una regolazione puntuale del loro contributo, che deve essere strettamente funzionale, appunto, a fini di interesse generale, e previa adeguata informazione degli utenti in ordine a tale flusso di dati, che deve essere comunque indirizzato solo ed esclusivamente all’autorità pubblica, a fini di prevenzione epidemiologica.

L’Italia rappresenta oggi un importante laboratorio politico della pandemia: in uno stato di eccezione alla Carl Schmitt, le attività del Parlamento si sono ridotte drasticamente mentre l’Esecutivo governa attraverso l’arma del decreto, per utilizzare una delle metafore belliche tanto in voga. Come garantire una governance democratica in questo contesto?

L’emergenza di queste settimane rappresenta per il nostro Paese la prova più difficile affrontata in tempo di pace, per le dimensioni del problema sanitario e per la natura sconosciuta del virus, che dunque rende non del tutto adeguate azioni terapeutiche e preventive consolidate. In un contesto del genere è necessario anzitutto perseguire unità d’intenti ed evitare improvvisazioni o azioni scoordinate e incoerenti. Che il Governo, in contesti emergenziali, giochi un ruolo primario è persino scontato, ma naturalmente il Parlamento non dev’essere marginalizzato. La nostra Costituzione, che non contempla l’emergenza come fonte del diritto, delinea specifiche procedure per tali contesti, individuando la fonte normativa elettiva nella decretazione d’urgenza, che coniuga il vaglio parlamentare con l’urgenza di provvedere. La legge ordinaria ha poi introdotto lo strumento, assai più duttile ma di applicazione più circoscritta, delle ordinanze, che pur potendo derogare alle norme vigenti non possono però disciplinare materie coperte da riserva di legge assoluta o contrastare con la disciplina delle materie coperte da riserva relativa, dovendo comunque rispettare i principi generali dell’ordinamento interno ed europeo. Il combinato disposto della decretazione d’urgenza e delle ordinanze (persino attuative dei decreti-legge) ha indubbiamente contenuto il contributo parlamentare, limitato alle sedi del sindacato ispettivo, degli atti di indirizzo e controllo e della conversione legislativa. È bene che il ruolo delle Camere non sia ulteriormente marginalizzato, anche superando il problema (che c’è!) del distanziamento sociale nelle aule parlamentari, magari disciplinando adeguatamente il voto elettronico, almeno per le ipotesi di scrutinio palese.

Il governo dell’emergenza sta portando a nuove forme di controllo sociale – attraverso la tecnologia e non solo – e all’infatuazione verso l’efficienza di certi modelli autoritari. La pandemia avrà effetti duraturi sul modello politico liberale?

Oggi si gioca una sfida cruciale per lo Stato di diritto: il governo dell’emergenza con metodi che siano e restino effettivamente democratici. L’emergenza deve poter contemplare ogni deroga possibile purché non irreversibile e proporzionata; non dev’essere, in altri termini, un punto di non ritorno ma un momento in cui modulare prudentemente il rapporto tra norma ed eccezione, coniugando istanza personalistica ed esigenze solidaristiche. La duttilità del diritto, la sua capacità di adeguarsi al contesto contemplando le deroghe necessarie e proporzionate alle specifiche esigenze, pur senza intaccare il “nucleo duro” dei diritti fondamentali, è la più grande forza della democrazia. E’stata questa sua grande forza a consentirci di superare momenti drammatici – come quel 16 marzo 1978 da poco commemorato – senza rinnegare, distruggendolo dalle fondamenta, lo Stato di diritto.